Con le brevi righe che seguono ho la certezza di essere frainteso, cosa che certo non mi spaventa essendo parte della mia quotidianità, ma trattandosi di un concetto importante vale senza dubbio la pena tentare di affrontarlo.
In Etiopia se sei bianco sarai sempre un “forenji”: potresti anche spendere l’intera vita qui, imparare alla perfezione il complesso amharico, convertirti alla religione ortodossa o partecipare con passione ad ogni celebrazione locale, ma agli occhi degli etiopi sarai comunque diverso. Potremmo inquadrarlo come una sorta di razzismo inverso: immagina di non poter rifiutare il posto migliore su auto o bus come fossi una Rosa Parks al contrario, di non poter camminare per strada senza che qualcuno si offra di aiutarti per qualsiasi cosa o desideri solo essere salutato, essere invitato a ogni festa o celebrazione che incroci per caso, venire salutato col rispetto dovuto ad un’autorità da polizia, militari e monaci.
Le sensazioni che scaturiscono da questa attitudine sono conflittuali: da una parte fa piacere ricevere considerazione e riguardo, ma dall’altra si sente sempre un po’ il puzzo dell’isolamento e rattrista avere la certezza di non poter essere davvero come gli altri (immagino sia la stessa sensazione provata dalla prima scimmia eretta su due zampe o, di converso, come l’ultima ad averlo fatto).
Per esser diretti potremmo dire che essere un bianco in questo pezzetto d’Africa è come essere una velina da noi: tutti ti guardano, ti fissano, ti seguono, provano a parlare con te insistentemente come in preda ad un’attrazione fatale, hanno voglia di toccarti e qualcuno lo fa anche di soppiatto, ti fischiano dietro e urlano per richiamare la tua attenzione magari solo per un secondo, cercano di invitarti a prendere un caffè o a una festa o qualsiasi altra cosa gli passi per la mente che gli permetta di sfoggiare la tua presenza come un trofeo, si atteggiano davanti a te con movenze poco credibili e un’inglese improbabile solo per darsi un tono. Insomma vogliono avere un contatto col “forenji” a tutti i costi, purché non duri oltre 5 minuti però. Già, perché in realtà il loro interesse è effimero e passeggero, non si tratta di un’autentica voglia di conoscerti e confrontarsi ma piuttosto di un gioco, un divertimento, per questo ci si sente come una velina di cui tutti sono attratti irrefrenabilmente ma che in realtà nessuno è davvero interessato a conoscere sul serio.
Potrei anche azzardare che siamo visti come semplici giocattoli, qualcosa di nuovo e diverso con cui trastullarsi per un po’ per poi tornare alle cose serie e importanti della propria vita etiope. Basti solo sapere che difficilmente una discussione va oltre i 10 minuti e che superate le iniziali domande di rito si vada irrimediabilmente sempre a finire sulla cultura e sulle tradizioni etiopi: una volta che avrete elencato telegraficamente nome, professione, nazionalità, lavoro e poco altro come in una lezione di inglese delle elementari, tutto quello che seguirà sarà una sorta di interrogatorio diretto e monodirezionale sull’Etiopia.
La sensazione, spero sbagliata, è che la sola cosa che gli interessi davvero sia sapere se mangi il loro cibo, se balli come loro, se ti piace la loro musica, cosa pensi della cultura etiope e della città in cui ti trovi. Non è una cosa strana considerando che l’Etiopia è un paese “solitario”, molto focalizzato su se stesso e decisamente autocentrico, ma vedere come convivano con sorprendente nonchalance un’ossessiva invadenza e un’effettivo disinteresse di base è spiazzante come la migliore delle finte di Roberto Baggio.
Naturalmente ci sono molti etiopi sinceramente interessati ai “forenji”, persone con cui confrontarsi è qualcosa di autentico, profondo e valorizzante. Ma per tutti gli altri africani di questa terra rimane la sensazione di essere niente di più dell’ultima scoperta (in ogni senso) di Antonio Ricci, noi siamo la copertina affascinante di un magazine che li attira per una sfogliata veloce ma che non hanno nessuna intenzione di leggere davvero fino in fondo.